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3 settembre

 
La nave dolce

E’ stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il documentario “La nave dolce” del regista Daniele Vicari.

In 90 minuti viene raccontata la drammatica e triste vicenda della Vlora, la nave cargo albanese che nel 1991 sbarcò al porto di Bari carica di circa 20.000 persone di tutte le età, scappate alla ricerca di un futuro migliore, o solamente per sfuggire al regime del loro Paese senza sapere a cosa andavano incontro.

Con un montaggio che accosta le testimonianze dei protagonisti che erano sulla nave, tra i quali il ballerino Kledi Kadiu, e immagini d’epoca ricercatissime ed esclusive, viene ricostruito il viaggio della Vlora partendo dalle cause che spinsero centinaia di civili a intraprendere il viaggio della speranza, per poi passare alla narrazione delle sensazioni durante il viaggio, al momento dello sbarco e del trasferimento allo stadio, e arrivando infine al momento della disillusione, quando la maggior parte di loro fu rimpatriata in Albania. Grande importanza viene data, per tutto il corso del film, all’aspetto umano: ogni difficoltà, ogni sofferenza passata trapela direttamente dalle parole dei sopravvissuti, che ricordano, spesso con le lacrime agli occhi, quanto anche le difficoltà minime e le funzioni vitali vengano messe in discussione quando ci si trova in situazioni estreme.
Trovo che Vicari abbia realizzato un’opera accurata e completa, nella quale vengono ricostruiti e analizzati i fatti oggettivi ma non solo: nelle confessioni profonde, e nella sensibilità espressa dal tono della narrazione, grazie anche al ruolo delle musiche, possiamo ritrovare attraverso gli occhi di Kledi, Halim, Eva, Robert e gli altri gli stessi sentimenti, le stesse speranze e le stesse paure che può provare ognuno di noi. Ecco quindi che l’odissea della Vlora e l’eccezionalità di questo dramma umano diventano la metafora di ogni viaggio verso un futuro diverso, di ogni individuo che si trova ad affrontare con coraggio la vita e ogni possibilità di cambiamento che gli viene offerta.

 

Eleonora Drago

 
Un film necessario

Ci sono film che apprezzi per l’originalità del tema, altri per la potenza visiva delle immagini, altri ancora per la cura maniacale della regia.

Tutti aspetti che concorrono a fare di un film un’opera artistica da consegnare alla cinematografia mondiale. Ma pochi sono i film che riescono a dire qualcosa di necessario.

"Lemale et ha’ halal" ("Fill the Void"), film israeliano della regista Rama Burshtein, è un’opera che riesce ad affermare valori sopiti di una società sempre più individualista, disgregata e caotica. Al centro della storia, una famiglia ebrea di Tel-Aviv colpita dall’improvvisa perdita della figlia Ester, al nono mese di gravidanza, sposata col fedele Yocai. La giovane, che riesce a dare comunque alla luce il bambino, lascia altre due sorelle, Shira che ha da poco compiuto diciotto anni e si appresta al fidanzamento, ed Ester, la maggiore, che soffre invece il fatto di non aver trovato ancora marito. Ed è proprio su questa situazione venutasi a creare che il film srotola il suo intreccio narrativo: dopo essere stata rifiutata dal suo fidanzato, i genitori propongono a Shira di sposare Yocai, rimasto vedovo e con un bambino.

Da quella che sembra una forzatura, un’unione obbligata e assurda per i nostri canoni, la regista riesce invece a creare una delicata e sensibile storia d’amore. Non l’amore romantico e sdolcinato al quale siamo abituati, ma l’amore responsabile e maturo, quello che riesce a farsi dono per gli altri: per i genitori, spaventati dall’idea di non vedere più il loro nipotino, e per Yocai, rimasto solo.

Shira, dopo un primo rifiuto, decide così di sposare Yocai perché è la cosa giusta da fare, come dice lei stessa. Ma il rabbino del luogo, dai quali i genitori e i due futuri sposi si recano per ricevere la benedizione, non dà il suo consenso: non scorge verità nei sentimenti di Shira. Solo quando la ragazza impara ad amare il rabbino concede il suo assenso al matrimonio, realizzando quello che è il sogno di ogni donna. E’ proprio nei legami (per quanto dogmatici e gerarchici) tra i membri della comunità ebraica, che si aiutano e soccorrono nel momento del bisogno, che si sostengono nei momenti di crisi e sofferenza, che si riesce a cogliere un profondo bisogno di ritornare all’essenzialità dei rapporti umani, quelli autentici, non quelli effimeri di una società sempre più slegata da se stessa.

Un film necessario che riesce ad affermare una verità del nostro tempo. E si sente odore di premi…

 

Luigi Granato

 
Blondie

Certo, occorrerebbe spiegare ai registi presenti in laguna che non è necessario, per chiudere un film, inquadrare il mare. Ma questo è un discorso diverso.

Lo svedese "Blondie", Giornate degli Autori, firmato dall'habitué Jesper Gaslandt, inquadra, in tre atti, l'incontro-scontro di tre giovani donne (va da sé, biondissime) con la loro madre, in procinto di festeggiare i suoi settanta anni. L'occasione è quella giusta per scatenare una serie di incomprensioni, rievocazioni di vecchi attriti, malumori sepolti che tornano a chiedere il conto dopo un'adolscenza vissuta sotto lo stesso tetto, ma con prospettive ed effetti ben diversi.

Gaslandt apre il suo passaporto e ritrova Bergman, patinandolo di pop culture, ma anche di sardonica ironia: primi piani in quantità, letture psicologiche imbastite - ma mai sviscerate - dialoghi tesi e sofisticati.

Sorprendentemente, ma forse non troppo, visti termini di paragone, a reggere di più non è la sceneggiatura, bensì la cifra tecnica: grande fotografia, patinatissima a volte, ma sempre controllata in modo ben funzionale alle necessità espressive, movimenti di macchina intelligenti e spesso solenni, sequenze spesso accattivanti anche nello scambio continuo tra centralità del visuale e dell'auditivo. Peccato per il copione, vittima di un intreccio risolto troppo sinteticamente in proporzione al numero di caratteri in gioco, che non raggiunge la levatura della pura regia. Ma il film si lascia guardare, pur lasciando l'amaro in bocca per non essere penetrato a fondo laddove poteva scovare temi e fuochi molto più intensi.

 

D.K.P.

 
Immagini dal festival