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30 agosto

 
Le nuove fondamenta della Mostra
Il palazzo del cinema

E' ufficialmente iniziata la 69 Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

Dopo la tradizionale cena con mille invitati sulla spiaggia dell'Excelsior, cui ha partecipato anche il ministro dei Beni Culturali, Orgnaghi, le sale cinematografiche: Grande, Perla, Darsena, Palabiennale, Pasinetti, e la nuova sala Volpi, sono tornate ad accoglierci, ormai familiari, culla della libera immaginazione stimolata da quell'attività simile al sogno che è la proiezione cinematografica. E' una Venezia inedita quella che si presenta ai riflettori della stampa internazionale, con un cambio di rotta impresso dal nuovo direttore, Alberto Barbera, già alla guida della Mostra alla fine degli anni '90.

Gli ultimi fuochi di Marco Muller erano scintillanti di glamour, con George Clooney mattatore incontrastato, e le incursioni dei Brangelina e della divina Charlize Theron. Astuto uomo di festival, Muller ha dimostrato una particolare sensibilità per la cinematografia orientale, che dopo i grandi nomi di Mizouchi e Kurosawa, e, più recentemente, Zhang Yimou, Kitano e l'ormai hollywoodiano Ang Lee, si è conquistata un posto di tutto rispetto nel panorama mondiale. Barbera invece è un professore, un esperto critico cinematografico che ha già diretto la Mostra e che ha reso grande il Torinofilmfestival.

A questo nuovo corso del festival Barbera ha scelto di dare una forte impronta autoriale, possibilmente emergente, perchè come ha detto in conferenza stampa: “La funzione originaria dei festival è quella di andare alla scoperta di nomi nuovi. In giro per il mondo, insieme ad una grande crisi che colpisce tutti, c'è un grande fermento. Se non recuperiamo questa funzione essenziale, forse i festival non servono più a tanto, diventano passerelle del già noto e consolidato”.

In tempi di crisi c'è un risvolto positivo, un grande fermento creativo, sebbene questo non escluda i grandi nomi abbonati alle competizioni internazionali, che al festival sono tornati o ci sono per la prima volta: Malick, Anderson, De Palma, Kim Ki Duk, Bellocchio, Bahrani, Mendoza. Con la consueta attenzione che la stampa tricolore riserva alla squadra di registi italiani (che durante la gestione Muller sembrava dovessero essere di diritto in competizione) attendiamo i film di Bellocchio con Isabelle Huppert, una riflessione sul tema delicatissimo del fine vita, liberamente ma dichiaratamente ispirato al caso Englaro; e poi ancora il primo film di Ciprì, senza Maresco, e la Comencini (Francesca). Una Mostra con meno film, quest'anno, che si preannunciano però tutti interessanti.

Oculata nel suo lavoro artistico e gravata dal peso di essere il festival più antico del mondo, la Mostra, complice l'immobilismo burocrate italiano votato allo sperpero, è ancora vetusta e arrancante a livello organizzativo e per mancanza di spazi; il nuovo Palazzo del Cinema, per il quale sono stati spesi ben 37 milioni di denaro pubblico, è ormai diventato famoso per essere un enorme “buco”, una voragine sulla quale urge ora (ri)costruire le fondamenta di un ritrovato sguardo sul cinema contemporaneo.

Questa Venezia numero 69 deve dare il segnale di una forte competitività, senza la preoccupazione di inseguire Cannes, Berlino o Toronto, ma tenendo presente qual è la funzione originaria di un festival, di un grande festival, che per non invecchiare deve sperimentare coraggiosamente senza mai perdere di vista il proprio baricentro; inssomma, siamo contenti che si ritorni a parlare di autorialità!

 

Piera Boccacciaro

 
Crawl

Ora, non che imbattersi in un film scadente sia una tragedia.

Nessuno ha il diritto di aggredire un regista se le sue scelte si rivelano discutibili, poco piacevoli, incerte, deboli...

Insomma: fare un film brutto dovrebbe essere un sacrosanto diritto di ogni filmmaker. Un po' meno, invece, fare un film sciatto. Ecco, questo a volte risulta proprio indigesto, quasi imperdonabile.

"Crawl", di Hervé Lasgouttes, purtroppo, riesce alla grande proprio in questo evitabile risultato. E pensare che all'apertura, coi suoi toni cromatici desaturati, con i vuoti da piccola provincia industriale che fanno tanto Ken Loach e un pugno di sequenze riuscite - belle le carrellate sulla nuotatrice, protagonista del film, che fende fluida l'acqua grigioazzurra - al film vien da concedere più di una chance. Poi, però, al minuto sessanta, circa, succede qualcosa.

L'impressione è che gli sceneggiatori siano stati narcotizzati e sostituiti da un gruppo di ragazzi intenti a scegliere gli snodi narrativi tirando dei dadi. Ci teniamo ben lontani dagli spoiler, sia chiaro, ma basti sapere che, in sala, si incrociavano spesso sguardi attoniti di spettatori convinti che, in fondo, forse Lasgouttes voleva fare un film di fantascienza - dato che l'assunto su cui si basa l'evento principe dell'intreccio presuppone, come ipotesi necessaria, la totale, inequivocabile, radicale idiozia del giovane (e attorialmente bravo) protagonista. E, da lì in poi, è un tripudio di assurdi, di scene incollate l'una all'altra in modo frettoloso e poco credibile, di costruzioni sceniche in cui la verosimiglianza è un lontano miraggio - pare quasi di rivedere i Monty Python, e dire che il mood del film va in senso opposto - fino al raccapricciante sbrodolamento di didascalismi del finale, vera eruzione di simbolismi da bignami e immagini da sussidiario.

Peccato, perché in fondo, l'intento introspettivo/sociale poteva funzionare. Ken Loach, però, abita altrove. Ben lontano, per giunta.

 

D.K.P.

 
Immagini dal festival